
Il simposio
organizzato dai docenti delle Università di Padova, Salento, Cambridge e dai
funzionari del Polo Museale del Veneto si è svolto in tre sedi: presso
l’Università di Padova, presso il Museo archeologico di Este e quello di
Altino. É stata così fornita una visione diretta di molti dei ritrovamenti
archeologici scoperti nella parte sud occidentale del Veneto. Del resto il
programma di questa edizione prevedeva di riservare un’attenzione particolare e
un tempo adeguato agli interessanti studi archeologici che in questi ultimi
tempi hanno approfondito, con grande attenzione, il settore tessile nella
regione.
Per capire la cultura
di un popolo è importante focalizzare l’attenzione sui tessili che insieme alla
ceramica costituiscono da sempre una voce fondamentale per indagare le
abitudini di vita, l’organizzazione sociale e, inoltre, per individuare le
conoscenze tecniche necessarie per produrre i manufatti che, nell’antichità
come oggi, erano voci importanti per la ricchezza e il prestigio di una
comunità.
A differenza della ceramica che si è conservata in grande
quantità e anche in buono stato di conservazione i tessili, molto spesso, sono
andati distrutti. Le fibre tessili, infatti, sono costituite da materiale organico
facilmente deperibile e si conservano solo in particolari condizioni
ambientali. Raramente si trovano, quindi, manufatti completi o tracce
abbastanza grandi da permettere di ricostruire o soltanto intuire forma e uso.
Più facile trovare qualche frammento fossilizzato, rintracciare le impronte su
oggetti di metallo oppure recuperare frammenti molto piccoli di conseguenza non
sufficienti per ricostruire processi produttivi, cultura, tradizioni, abitudini
di vita, cioè quello che attualmente interessa di più al mondo della ricerca e
a tutti noi che, faticosamente, ci aggrappiamo alle nostre radici per trovare
fiducia e certezze nel futuro.
In mancanza di
testimonianze complete, che rappresentano pur sempre una fortunata eccezione,
le relazioni si sono concentrate sugli
strumenti di lavoro e in particolare sui pesi dei telai che essendo di
terracotta hanno sfidato il tempo. Anche le fuseruole, essendo di
materiale litico si sono conservate bene
e offrono motivo di riflessione per ipotizzare la quantità di filato necessario
per successive lavorazioni con il telaio
o con altri strumenti. Un’attenzione particolare è dedicata alle fonti
letterarie e alle rappresentazioni pittoriche, spesso su ceramica, fonti
inesauribili di informazioni.
Tra gli studi suggestivo
quello presentato da Carla Corti dell’Università di Verona, Dipartimento
Culture e Civiltà, che si basa sulle fonti letterarie e epigrafiche per proporre ciò che i dati archeologici fino ad oggi mostrano solo parzialmente. Nella territorio della città di Mùtina, l’attuale Modena, fino al IV secolo d. C. si produceva la migliore qualità di lana. “Non solo la lana di Mutina, varietà dorata, era la più costosa in assoluto e così i capi di abbigliamento con essa realizzati, ma anche ai tessitori e follatori che lavoravano la lana di Mutina spettava un salario più elevato”, a dimostrazione che si trattava della migliore produzione tessile del mondo romano.
Culture e Civiltà, che si basa sulle fonti letterarie e epigrafiche per proporre ciò che i dati archeologici fino ad oggi mostrano solo parzialmente. Nella territorio della città di Mùtina, l’attuale Modena, fino al IV secolo d. C. si produceva la migliore qualità di lana. “Non solo la lana di Mutina, varietà dorata, era la più costosa in assoluto e così i capi di abbigliamento con essa realizzati, ma anche ai tessitori e follatori che lavoravano la lana di Mutina spettava un salario più elevato”, a dimostrazione che si trattava della migliore produzione tessile del mondo romano.
Indicazioni in questo
senso sono date dal monumento funerario di un addetto al commercio della lana,
i pesi fittili da telaio di forma tronco-piramidale decorati a matrice di cui
alcuni tarati in unciae e libbrae, e in particolate il
bassorilievo con un operaio che pesa una grossa balla su una stadera del tutto
simile a quelle usate comunemente in famiglia fino alla metà del XX secolo,
inoltre un grosso aequipondium, cioè
il peso che serviva a trovare l’equilibrio sull’asta e quindi ad individuare il
peso della merce. Negli ultimi tempi si è ritenuto di individuare negli scavi
di Villa Scartazza un opificio per la lavorazione della lana.
Un altro studio
interessante è stato fatto sempre da Carla Corti insieme a Michela Sanfelici,
dell’Università di Verona: si tratta di una proposta che riguarda il possibile
uso alternativo degli aghi in osso che si rinvengono nei siti di età romana,
spesso con due o tre crune.
L’interpretazione che
ne limita l’uso esclusivamente alle operazioni di cucitura non appare
conciliabile con la quantità, la diffusione e le caratteristiche tecniche di
questi aghi.
“Sono stati presi in considerazione
i rinvenimenti archeologici e le fonti iconografiche da una parte, e
l’archeologia sperimentale (indagando anche presso i gruppi di rievocazione
storica, come Sagitta Barbarica, e di studio odierno della tecnica del
nalbound, come attività svolta da Sanna-Mari Pihlajapiha” per ipotizzare se
potessero servire “per realizzare capi di abbigliamento con la tecnica oggi
conosciuta come nalbinding (particolarmente adatta per realizzare calze per
scarpe infradito, come le soleae che
si diffondono nel II secolo d.C. anche come scarpa da esterno”.
Una ricerca
approfondita e osservazioni che portano un contributo importante per capire che
“L’ampia presenza di aghi in osso nei siti romani potrebbe essere spiegata
anche dall’uso del nalbinding per realizzare indumenti, sia all’interno della familia, che presso laboratori tessili.
L’aumento dell’uso dei
sandali infradito (solea) a partire dal II secolo d.C. può aver contribuito
alla diffusione di questa tecnica (mediante la quale si potevano ottenere
comode calze di lana con l’alluce separato dalle altre dita), come parrebbe
documentare in particolare la presenza degli aghi a tre fori.
La richiesta di questo
tipo di indumento potrebbe aver coinvolto appieno il mercato tessile e
innescato anche una produzione locale. La possibilità di diversificare la
produzione infine rappresenta un’importante opportunità economica per il
singolo laboratorio tessile” e per il benessere di tutta la comunità.
Graziella Guidotti
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