venerdì 11 novembre 2016

TESSILI NELL'ANTICHITA'

Si è tenuto in Veneto dal 17 al 20 ottobre il “VI Purpureae Vestes International Symposium Textiles and dyes in the mediterranean economy and society, l’incontro durante il quale gli studiosi di tutti i paesi interessati divulgano e mettono a confronto lo stato dell’arte rispetto allo studio dei tessili archeologici e agli aspetti sociali, produttivi, commerciali, economici ad essi connessi nell’area del mediterraneo.
Il simposio organizzato dai docenti delle Università di Padova, Salento, Cambridge e dai funzionari del Polo Museale del Veneto si è svolto in tre sedi: presso l’Università di Padova, presso il Museo archeologico di Este e quello di Altino. É stata così fornita una visione diretta di molti dei ritrovamenti archeologici scoperti nella parte sud occidentale del Veneto. Del resto il programma di questa edizione prevedeva di riservare un’attenzione particolare e un tempo adeguato agli interessanti studi archeologici che in questi ultimi tempi hanno approfondito, con grande attenzione, il settore tessile nella regione.
Per capire la cultura di un popolo è importante focalizzare l’attenzione sui tessili che insieme alla ceramica costituiscono da sempre una voce fondamentale per indagare le abitudini di vita, l’organizzazione sociale e, inoltre, per individuare le conoscenze tecniche necessarie per produrre i manufatti che, nell’antichità come oggi, erano voci importanti per la ricchezza e il prestigio di una comunità.
A differenza  della ceramica che si è conservata in grande quantità e anche in buono stato di conservazione i tessili, molto spesso, sono andati distrutti. Le fibre tessili, infatti, sono costituite da materiale organico facilmente deperibile e si conservano solo in particolari condizioni ambientali. Raramente si trovano, quindi, manufatti completi o tracce abbastanza grandi da permettere di ricostruire o soltanto intuire forma e uso. Più facile trovare qualche frammento fossilizzato, rintracciare le impronte su oggetti di metallo oppure recuperare frammenti molto piccoli di conseguenza non sufficienti per ricostruire processi produttivi, cultura, tradizioni, abitudini di vita, cioè quello che attualmente interessa di più al mondo della ricerca e a tutti noi che, faticosamente, ci aggrappiamo alle nostre radici per trovare fiducia e certezze nel futuro.
In mancanza di testimonianze complete, che rappresentano pur sempre una fortunata eccezione, le relazioni si sono  concentrate sugli strumenti di lavoro e in particolare sui pesi dei telai che essendo di terracotta hanno sfidato il tempo. Anche le fuseruole, essendo di materiale  litico si sono conservate bene e offrono motivo di riflessione per ipotizzare la quantità di filato necessario per successive lavorazioni  con il telaio o con altri strumenti. Un’attenzione particolare è dedicata alle fonti letterarie e alle rappresentazioni pittoriche, spesso su ceramica, fonti inesauribili di informazioni.
Tra gli studi suggestivo quello presentato da Carla Corti dell’Università di Verona, Dipartimento
Culture e Civiltà, che si basa sulle fonti letterarie e epigrafiche per proporre ciò che i dati archeologici fino ad oggi mostrano solo parzialmente. Nella territorio della città di Mùtina, l’attuale Modena, fino al IV secolo d. C. si produceva la migliore qualità di lana. “Non solo la lana di Mutina, varietà dorata, era la più costosa in assoluto e così i capi di abbigliamento con essa realizzati, ma anche ai tessitori e follatori che lavoravano la lana di Mutina spettava un salario più elevato”, a dimostrazione che si trattava della migliore produzione tessile del mondo romano.
Indicazioni in questo senso sono date dal monumento funerario di un addetto al commercio della lana, i pesi fittili da telaio di forma tronco-piramidale decorati a matrice di cui alcuni tarati in unciae e libbrae, e in particolate il bassorilievo con un operaio che pesa una grossa balla su una stadera del tutto simile a quelle usate comunemente in famiglia fino alla metà del XX secolo, inoltre un grosso aequipondium, cioè il peso che serviva a trovare l’equilibrio sull’asta e quindi ad individuare il peso della merce. Negli ultimi tempi si è ritenuto di individuare negli scavi di Villa Scartazza un opificio per la lavorazione della lana.
Un altro studio interessante è stato fatto sempre da Carla Corti insieme a Michela Sanfelici, dell’Università di Verona: si tratta di una proposta che riguarda il possibile uso alternativo degli aghi in osso che si rinvengono nei siti di età romana, spesso con due o tre crune.
L’interpretazione che ne limita l’uso esclusivamente alle operazioni di cucitura non appare conciliabile con la quantità, la diffusione e le caratteristiche tecniche di questi aghi.
“Sono stati presi in considerazione i rinvenimenti archeologici e le fonti iconografiche da una parte, e l’archeologia sperimentale (indagando anche presso i gruppi di rievocazione storica, come Sagitta Barbarica, e di studio odierno della tecnica del nalbound, come attività svolta da Sanna-Mari Pihlajapiha” per ipotizzare se potessero servire “per realizzare capi di abbigliamento con la tecnica oggi conosciuta come nalbinding (particolarmente adatta per realizzare calze per scarpe infradito, come le soleae che si diffondono nel II secolo d.C. anche come scarpa da esterno”.
Una ricerca approfondita e osservazioni che portano un contributo importante per capire che “L’ampia presenza di aghi in osso nei siti romani potrebbe essere spiegata anche dall’uso del nalbinding per realizzare indumenti, sia all’interno della familia, che presso laboratori tessili.
L’aumento dell’uso dei sandali infradito (solea) a partire dal II secolo d.C. può aver contribuito alla diffusione di questa tecnica (mediante la quale si potevano ottenere comode calze di lana con l’alluce separato dalle altre dita), come parrebbe documentare in particolare la presenza degli aghi a tre fori.
La richiesta di questo tipo di indumento potrebbe aver coinvolto appieno il mercato tessile e innescato anche una produzione locale. La possibilità di diversificare la produzione infine rappresenta un’importante opportunità economica per il singolo laboratorio tessile” e per il benessere di tutta la comunità.
Graziella Guidotti

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